5 settembre 1786, Ratisbona
Il mattino seguente, verso le dieci, arrivai a Ratisbona. Avevo quindi già impiegato trentanove ore a percorrere ventiquattro miglia e mezzo di strada. La posizione di Ratisbona è propriamente amena, i dintorni allettavano a fondarvi una città, ed anche qui il clero non ha perso tempo. Quasi tutto il territorio della città gli appartiene; e a Ratisbona le chiese sorgono a fianco di altre chiese, i monasteri a fianco di altri monasteri.
Il Danubio mi ricorda la parte antica di Magonza. A Francoforte il fiume ed i ponti porgono migliore aspetto, ma qui, dal fiume, la vista è comunque molto gradevole. Mi affrettai ad andare al collegio dei gesuiti, dove vi era lo spettacolo che danno gli allievi ogni anno; vidi la fine dell’opera, ed il principio della tragedia. Quei giovani non recitavano male, non erano inferiori a qualsiasi compagnia di dilettanti, ed erano pure vestiti splendidamente. Ed anche questa pubblica rappresentazione mi persuase sempre più dell’accortezza dei gesuiti. Nulla trascurano di quanto vale ad acquistare influenza, e lo sanno trattare con amore, e con avvedutezza [...] e nello stesso modo che adornano splendidamente le loro chiese, sanno pure, piegarsi ai gusti mondani, innalzando un teatro, intorno al quale nulla vi è da ridire.
[...] Le loro chiese, i loro campanili, tutti i loro edifici hanno aspetto grandioso, imponente, che ispira agli uomini, senza che neppure questi se ne avvedano, rispetto. Nella decorazione delle loro chiese fanno un tale sfoggio d’oro, d’argento, di metalli, di marmi preziosi, che deve propriamente acciecare i poveri, che pongono il piede al loro interno.
Si adopera qui per le costruzioni una singolare qualità di pietra, di aspetto cupo, antico, di natura porosa...una specie di porfido di colore verdastro [...] Avrei desiderato prenderne un campione con me, ma pesano e ho giurato di non caricarmi più di sassi in questo viaggio.